Riportare alla luce architetture e oggetti che la terra nasconde e protegge da millenni non è un semplice atto di riconquista del passato. È una forte affermazione del fatto che questo passato, oggi riguadagnato, rappresenta il futuro.
Vi è, nel gesto apparentemente semplice del liberare dalla matrice della terra ciò che rimane delle società del passato, una risposta a quell'ideologia della violenza che abbiamo visto così tristemente applicata alle rovine delle antiche civiltà assire, nelle tremende immagini di distruzione compiuta dall'ISIS. Nella sua dimensione così sistemica, questa violenza mira a dissestare le fondamenta stesse della cultura.
Partendo dal dato archeologico, ovvero da quei frammenti di realtà diverse che sono rimaste fissate nel processo di deposizione nel terreno, l'archeologo mira a ricostruire l'insieme dell'esperienza culturale che vi aveva dato origine. Lo scavo è quindi anche il luogo in cui si risana l'interruzione di una tradizione che si è consegnata, per così dire al terreno.
Oggi non esistono più portatori della cultura che viene riportata alla luce: nessuno più si identifica con il flusso interpretativo vivente di quella società del passato celata dalla terra. Come ci si può allora reinserire nell'alveo di quella che era, ma non è più , una tradizione vivente? Come superare o sanare l'interruzione?